di Enrico Del Vescovo
Finalmente qualcosa sembra muoversi nel panorama indifferente della diplomazia internazionale. Sappiamo bene che la presenza di interessi economici, politici e finanziari fortissimi ha sempre condizionato pesantemente l’atteggiamento della comunità internazionale nei confronti della Cina come nei confronti di altre potenze economico-militari.
L’iniziativa presa giorni fa da Sarkozy ha tuttavia innescato una serie a catena di prese di posizioni che sembrerebbero poter rompere quella sorta di goffo immobilismo che lascia trapelare un atteggiamento tanto cinico quanto irresponsabile da parte della comunità internazionale nei confronti delle violazioni dei diritti in Tibet.
Il presidente francese Sarkozy ha preso l’iniziativa per primo ed ha posto tre condizioni ben precise alla Cina per la partecipazione francese alla cerimonia di apertura dei giochi:
l’inizio di un dialogo con il Dalai Lama, la fine delle violenze in Tibet, il rilascio dei monaci prigionieri.
Difficile prevedere quali saranno le conseguenze del gesto francese, ma, di certo, si tratta di un primo passo, seppure di valore solo ancora simbolico, ma speriamo capace di incalzare la comunità internazionale e di metterla di fronte alle sue responsabilità, spingendola verso una posizione più ferma ed efficace.
Infatti alla decisione francese hanno fatto presto eco quella dell’inglese Gordon Brown, del segretario Onu Ban Ki Moon, nonché, verosimilmente, anche la posizione ufficiale del Parlamento Europeo.
Ora è fin troppo evidente che l’agitazione in Tibet si presti ad una facile strumentalizzazione in funzione anti cinese; anzi, qualcuno potrebbe persino ipotizzare facilmente l’esistenza di una sorta di supporto esterno alla protesta in atto per mettere in difficoltà la Cina in un momento così importante per l’immagine del gigante asiatico di fronte al mondo intero.
Tuttavia il problema centrale è semplicemente un altro: il diritto di ogni popolo, grande o piccolo, forte o debole, ricco o povero che sia, di preservare la propria cultura ed identità storica, senza dover soccombere di fronte a qualsivoglia forma di autoritarismo esterno, espressione di una amministrazione centrale lontana, cieca e sorda di fronte alle peculiarità del luogo.
Tale ragionamento dovrebbe valere anche in considerazione delle conseguenze lasciate dai processi di globalizzazione che, del resto, si stanno ripercuotendo come un boomerang anche proprio contro l’occidente, mentre la Cina ne sta traendo grande forza grazie alla sua ascesa nei mercati internazionali, dimostrando oltretutto pure spregiudicatezza ed insensibilità verso i diritti umani dei lavoratori, avendo aperto da tempo la strada ad un capitalismo senza freni.
Uno slogan recente recita: globalizziamo i diritti!
Ebbene il Tibet ne è un caso emblematico, tale da rappresentare un banco di prova per l’intera comunità internazionale e le condizioni poste da Sarkozy sembrerebbero essere il primo passo necessario in questa direzione.
Ma dovremo attendere ancora del tempo per vedere se la considerazione dei diritti umani sarà veramente un motivo chiave nella definizione della politica internazionale, oppure se la questione del Tibet sarà solo un pretesto utile per facili strumentalizzazioni ed ipocriti proclami validi solo per salvare momentaneamente l’apparenza.