Riceviamo e pubblichiamo.
di Lucio Garofalo
In base alle stime ufficiali, fornite dall’Inail, il triste bilancio delle vittime sul lavoro in Italia nel 2008 si è fermato per la prima volta sotto la soglia dei 1200. Un dato apparentemente confortante, che viene vantato dal governo come se fosse un successo. Comunque, l’anno scorso il numero dei morti sul lavoro è sceso a 1.120, cioè al livello più basso dal lontano 1951.
Nel Rapporto 2008, l’Inail segnala 874.940 incidenti sul lavoro e 1.120 infortuni mortali, la metà dei quali si è verificata sulle strade. Quindi, nel 2008 i morti sul lavoro sono calati del 7,2 per cento. In realtà, in questo calcolo percentuale, già di per sé inquietante, affiora un ulteriore motivo di preoccupazione: i lavoratori stranieri che si sono infortunati sul lavoro, essendo notevolmente più esposti al rischio infortunistico, sono aumentati del 2 per cento. Dunque, si riducono gli infortuni per i lavoratori in generale, ma tendono a risalire per i lavoratori stranieri. Inoltre, nonostante la lieve flessione registrata nel 2008, tuttavia il nostro Paese continua ad accusare un numero di morti sul lavoro più elevato rispetto alle altre nazioni europee in termini sia assoluti che relativi. E questo solo per attenerci alle cifre ufficiali. Infatti, non dimentichiamo che l’Italia è il paese del lavoro nero, del record di evasione fiscale, dell’economia sommersa, della mafia e dell’illegalità diffusa.
A proposito di decessi sul lavoro non sarebbe fuori luogo sollecitare un’opportuna riflessione, ossia un’operazione di aggiornamento linguistico. Anziché parlare di “morti bianche” (un’espressione che designava le morti in culla, ovvero le morti prive di colpa, che implicano un richiamo al destino, al fato, un riferimento più o meno esplicito a circostanze casuali e a tragiche fatalità) è senza dubbio più corretto e appropriato usare la definizione di “omicidi bianchi”, dal momento che le responsabilità esistono sempre e sono sempre individuabili e perseguibili, almeno dovrebbero esserlo. Così come sono sempre individuabili ed eliminabili i motivi che sono all’origine di quelle morti.
Dunque, in Italia le stragi sul lavoro costituiscono una vera e propria emergenza, malgrado ci si ostini a sottovalutarne l’effettiva portata e la drammaticità, sebbene le priorità nell’agenda del governo siano altre, come pure quelle dell’opposizione, nonostante vengano artatamente falsificate le statistiche a scopo di mera propaganda, benché i mass-media ufficiali continuino ad omettere i dati reali di un bollettino quotidiano che assomiglia sempre più ad un bollettino di guerra. Infatti, dall’inizio del corrente anno il macabro bilancio degli omicidi bianchi ha superato quota 690.
La media quotidiana di 3/4 vittime provocate dallo sfruttamento capitalistico, segnala l'idea della "severità" delle norme vigenti e dell'"inflessibilità" della loro applicazione e dei controlli ispettivi. Se non si fosse capito, stavo facendo dell’ironia. Intanto, gli operai continuano a crepare nelle fabbriche, nelle officine, nei cantieri edili, negli ambienti di lavoro, nei luoghi (malsani e insicuri) dello sfruttamento economico, mentre nessun governo, nessun partito, nessun sindacato può assolutamente intervenire, ammettendo la propria impotenza e dichiarando il proprio fallimento.
A questo punto apro una breve parentesi per ricordare un celebre film d’autore del 1971, “La classe operaia va in paradiso”. Si tratta di uno straordinario capolavoro del cinema militante e politicamente impegnato, diretto dal regista Elio Petri ed interpretato dall’indimenticabile Gian Maria Volonté, nei panni dell’operaio milanese Lulù Massa. Il quale si presenta inizialmente come un fenomenale campione del cottimo, un vero stakanovista della catena di montaggio, ma improvvisamente subisce un incidente che gli procura la netta amputazione di un dito. Sarà in seguito a questo infortunio sul lavoro che l’operaio Massa ritroverà la sua coscienza di classe, acquisendo la consapevolezza della sua condizione di proletario sfruttato ed inizia a lottare con rabbia e determinazione contro il sistema alienante ed oppressivo della fabbrica.
Ebbene, negli ultimi mesi, sia all’estero (soprattutto in Francia) che in Italia, gli effetti destabilizzanti della recessione economica internazionale hanno spinto molti operai, esposti all’incombente minaccia dei licenziamenti, a ribellarsi e ad intraprendere forme estreme di protesta, prima impensabili e sconosciute. C’è l’operaio che tenta drammaticamente il suicidio perché non riesce più ad arrivare alla fine del mese, se non proprio alla metà del mese, ma ci sono anche numerosi casi di lavoratori che scelgono di resistere e lottano strenuamente contro i licenziamenti, contro la disoccupazione e contro la crisi, che i padroni tentano di far pagare alla classe operaia, come sempre.
Detto ciò, espongo in breve un ragionamento di ordine personale, quasi intimistico. Io faccio l’insegnante, per cui appartengo economicamente e socialmente alla piccola borghesia cosiddetta "intellettuale" (si fa per dire). Ora, sebbene io non sia un operaio (lo sono stato, avendo lavorato per qualche mese in alcune industrie prima di entrare nella scuola, per cui ho sperimentato di persona gli effetti dello sfruttamento materiale e del sistema alienante e repressivo imposto in fabbrica), tuttavia mi considero una sorta di "proletario" del sistema aziendale dell'istruzione, un bene immateriale ridotto a merce. Da svendere e consumare, ossia alienare e mortificare.
In ogni caso, anche se fossi stato un impiegato di banca, un medico, un avvocato o un altro professionista, avrei sicuramente espresso la mia solidarietà morale e politica verso le iniziative di lotta e resistenza intraprese negli ultimi tempi da gruppi di operai ribelli, perciò perseguitati, in molte fabbriche, soprattutto del gruppo Fiat. Si pensi ad esempio agli operai dell’INNSE, a quelli in lotta a Pomigliano D’Arco, ai lavoratori licenziati dalla Fiat Sata di Melfi, ai lavoratori che si sono autonomamente organizzati e per questo sono sottoposti all'ennesimo tentativo di criminalizzazione e a un duro attacco repressivo portato dal sistema mafioso della Fiat e dallo Stato suo complice da sempre.
Io ho sempre manifestato la mia simpatia e vicinanza ideologica nei confronti delle lotte condotte dalla classe operaia in ogni tempo e ogni angolo del pianeta. Da sincero e convinto operaista, ribadisco la mia piena solidarietà morale e politica nei riguardi degli operai che lottano contro la crisi e contro i licenziamenti, contro lo sfruttamento in fabbrica, per non essere più vittime sul lavoro, vittime dell’ennesimo inganno, dell'ennesima menzogna e mistificazione perpetrata da governo, padroni e sindacati.
Lucio Garofalo